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                Per questo anno ho scelto per voi una lettura sul tema del lavoro

Ciao, Francesca.

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Lo si creda o no, fa lo stesso, abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare. Abbiamo conosciuto operai che, al risveglio, pensavano solo al lavoro. Si alzavano la mattina – e a quale ora – cantando all’idea di andare al lavoro. E cantavano alle undici, quando si preparavano a mangiare la loro minestra. Insomma è sempre a Hugo, è sempre a lui che bisogna tornare: Andavano, cantavano. Nel lavoro stava la loro gioia, e la radice profonda del loro essere. E la ragione stessa della loro vita. Vi era un onore incredibile del lavoro, il più bello di tutti gli onori, il più cristiano, il solo forse che possa rimanere in piedi. […].

Abbiamo conosciuto un onore del lavoro identico a quello che nel Medio Evo governava le braccia e i cuori. Proprio lo stesso, conservato intatto nell’intimo. Abbiamo conosciuto l’accuratezza spinta sino alla perfezione, compatta nell’insieme, compatta nel più minuto dettaglio. Abbiamo conosciuto questo culto del lavoro ben fatto perseguito e coltivato sino allo scrupolo estremo. Ho veduto, durante la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali.

[…].

Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali.

E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene.

Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.

 

Un sentimento incredibilmente profondo che oggi definiamo l’onore dello sport, ma a quei tempi diffuso ovunque. Non soltanto l’idea di raggiungere il risultato migliore possibile, ma l’idea, nel meglio, nel bene, di ottenere di più. Si trattava di uno sport, di una emulazione disinteressata e continua, non solo a chi faceva meglio, ma a chi faceva di più; si trattava di un bello sport, praticato a tutte le ore, da cui la vita stessa era penetrata. Intessuta. Un disgusto senza fine per il lavoro mal fatto. Un disprezzo più che da gran signore per chi avesse lavorato male. Ma una tale intenzione nemmeno li sfiorava.

Tutti gli onori convergevano in quest’unico onore. Una decenza, e una finezza di linguaggio. Un rispetto del focolare. Un senso di rispetto, di ogni rispetto, dell’essenza stessa del rispetto. Una cerimonia per così dire costante. D’altra parte, il focolare si confondeva ancora molto spesso col laboratorio e l’onore del focolare e l’onore del laboratorio erano il medesimo onore. Era l’onore del medesimo luogo. Era l’onore del medesimo fuoco. Cosa mai è divenuto tutto questo. Ogni cosa, dal risveglio, era un ritmo e un rito e una cerimonia. Ogni fatto era un avvenimento; consacrato. Ogni cosa era una tradizione, un insegnamento; tutte le cose avevano un loro rapporto interiore, costituivano la più santa abitudine. Tutto era un elevarsi, interiore, e un pregare, tutto il giorno: il sonno e la veglia, il lavoro e il misurato riposo, il letto e la tavola, la minestra e il manzo, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la scala, e le scodelle sul desco.

Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene.

 

Da “Il denaro” di Charles Peguy

 

Nota biografica

 

Charles Péguy (1873-1914) è uno scrittore, poeta e saggista francese. Di modestissime origini, si distinse fin dai primi anni di scuola e, grazie a borse di studio, poté frequentare l’École Normale Supérieure di Parigi, in cui fu allievo di Henri Bergson. Acceso dreyfusardo e socialista dal 1895, fu presto deluso dallo spirito positivista e dalle tendenze del socialismo scientifico e politicante. Dopo varie iniziative editoriali, nel 1900 fondò i Cahiers de la Quinzaine, che divenne il centro di uno dei più vivi movimenti spirituali del tempo (vi collaborarono, tra gli altri, Romain Rolland e André Suarès). La visita a Tangeri del 1905 dell’imperatore tedesco Guglielmo II e la minaccia di un conflitto franco-tedesco ridestarono in lui il sentimento patriottico. Ma soprattutto fu influenzato dal pensiero di Bergson e dalla sua critica dell’intellettualismo. La lunga crisi sfociò nel 1908 nel ritorno al cattolicesimo, vissuto in una forma mistica e rivoluzionaria. Nel 1914 rimase ucciso nel corso della battaglia della Marna. Tra le sue opere in prosa ricordiamo, in particolare, La nostra giovinezza (1910) e Il denaro (1913); tra quelle in poesia, composte tutte tra il 1909 e il 1913, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco (1910) e Eva (1913).

Rimasto pressoché ignorato quando fu pubblicato nel 1913 all’interno dei Cahiers de la Quinzaine, Il denaro di Charles Péguy è ormai divenuto un classico della letteratura francese. Muovendo da un’aperta critica nei confronti della cultura del proprio tempo, Péguy analizza le condizioni spirituali che hanno condotto all’affermazione del sistema industriale in Europa nel XX secolo. Il predominio della dimensione economica all’interno della società occidentale ha così finito per imporre il denaro come valore fondamentale, riducendo in questo modo il lavoro ad una prestazione che non ha nulla a che vedere con l’onore che ad esso era associato nel Medioevo e nell’Antichità.

 


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Last update: domenica 16 gennaio 2011 20:31:38